Dal Gabbiano al Giardino: l’intramontabile attualità di Cechov
di Luca Pascoletti


Quando il nuovo Teatro d'Arte di Mosca diretto da Stanislavskij scelse come quarto spettacolo della sua prima stagione il Gabbiano di Cechov, la scelta ad alcuni parve azzardata: solo due anni prima, nel 1896 a San Pietroburgo, la sua rappresentazione era stata un fiasco1. Si ritiene che in quella precedente occasione gli attori non fossero sufficientemente preparati a rappresentare un’opera così moderna, nella quale la maggior parte dell’azione avviene fuori dalla scena e al centro dell’attenzione del pubblico è la psiche dei personaggi.

La ricerca di Stanislavskij sul «come rappresentare Cechov» contribuì in misura determinante alla formulazione di quel «metodo» che consisteva nel sollecitare l’attore verso la più intima, profonda e vissuta comprensione del personaggio, verso la totale immedesimazione e partecipazione alla sua vicenda. «Sbagliano» scrisse ancora Stanislavskij «coloro che nelle opere di Cechov tentano di recitare, di rappresentare: bisogna essere, cioè vivere, esistere, procedendo lungo l’arteria principale dell’anima, profondamente nascosta sotto la superficie». Su queste premesse, il lavoro scenico di Stanislavskij attore e regista di attori consisteva in una meticolosa e paziente indagine sulle motivazioni psicologiche di ogni battuta, di ogni gesto, in modo da creare tutte le più favorevoli premesse alla conclusiva identificazione con il personaggio, «sulla linea dell’intuizione e del sentimento». È noto come Stanislavskij, durante le prove, solesse interrompere gli attori non sufficientemente immedesimati, gridando loro «Non ci credo!», come a dire che in un dato gesto o in un dato tono l’attore aveva preso il sopravvento sul personaggio, e la recitazione sulla verità.2

Tra l’idea di teatro di Stanislavskij e i testi di Cechov si creò quindi una sinergia quasi perfetta e la rappresentazione moscovita del dicembre 1898 fu un tale successo che negli anni successivi vennero messi in cartellone anche gli altri tre notissimi capolavori teatrali dell’autore: Zio Vanja, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi, gli ultimi due scritti appositamente per il Teatro d’Arte.

La concezione della letteratura in Cechov è quella di uno strumento di analisi psicologica e sociale della realtà quotidiana. In quanto uomo di scienza, il suo scopo era quello di rappresentare la vita con obiettività attraverso le sue miserie e i suoi vizi e personaggi umanissimi, spesso incapaci di comunicare e limitati da questa loro fragilità. Cechov voleva mostrare il mondo senza il filtro di un giudizio morale, usando uno stile realistico, distaccato ma allo stesso tempo empatico, e lasciava al lettore il compito di riflettere su quanto accadeva nelle vicende da lui narrate. 

La letteratura può dirsi tale, invece, se ritrae la vita quale essa è nella realtà. Il suo mandato è la verità incondizionata e schietta. Limitarne la funzione alla pesca delle perle le sarebbe fatale quanto chiedere a Levitan di dipingere un albero sorvolando sulla corteccia imbrattata e le foglie ingiallite ... Per un chimico nulla v’è di sporco, su questa terra. E il letterato deve essere obiettivo come un chimico; deve sapersi allontanare dalla soggettività del quotidiano, deve capire che anche i mucchi di letame hanno un ruolo di tutto rispetto nel paesaggio e che le cattive passioni sono parte della vita tanto quanto le buone3.

Alla base di questo modo di guardare alla letteratura e alla vita sono le umili origini di Cechov: Il nonno – Egor Michailovic Cech – era stato servo della gleba e aveva comperato la propria libertà versando al padrone 3500 rubli; il padre, Pavel Egorovic, aveva aperto nel 1857 a Taganròg una piccola drogheria.

Čechov era nato sul Mar d’Azov, un mare poco profondo, in una remota cittadina [nel 1860 a Taganròg, in Ucraina, NdA] che era capoluogo di distretto e il cui grigiore deve aver assecondato non poco, viene da credere, la sua malinconia congenita. Ho sempre pensato, tuttavia, che il fondo di irrimediabile tristezza proprio del suo carattere si dovesse altresì a un forte retaggio orientale; e lo dico avendo presente i volti dei suoi parenti, gente semplice dagli occhi stretti e leggermente strabici, e dagli zigomi sporgenti. Con gli anni la somiglianza si sarebbe rafforzata e, come spesso capita agli orientali, anche Čechov sarebbe invecchiato anzitempo nell’anima e nel corpo. Era tisico, certo, ma la tisi non fu l’unica ragione di un viso giallastro e rugoso che, appena quarantenne, lo rendeva simile a un anziano mongolo. L’infanzia? La povertà gretta della famiglia; la madre taciturna, labbra sottili e sempre serrate; il padre «iracondo e severo» che costringeva i figli più grandi a cantare di notte nel coro della chiesa, li tormentava con le prove fino a tarda sera, autentico tiranno, e pretendeva che sin da piccoli, a turno, stessero a bottega, «occhio del padrone». A farne le spese era soprattutto Antoša, il più coscienzioso: da buon osservatore il padre se ne era accorto e lo metteva dietro al banco più spesso degli altri ogniqualvolta doveva assentarsi. Una sola attenuante: senza il coro della chiesa e le prove non avremmo avuto racconti come Notte di Pasqua, Lo studente o Il vescovo, così come non avremmo avuto Un omicidio senza la sua profonda conoscenza delle funzioni religiose e dei più umili tra i fedeli4.

Nel 1876 la famiglia di Cechov si trasferì a Mosca, e Anton Pavlovic la raggiunse nel 1879, appena finito il ginnasio. In quell’anno si iscrisse alla facoltà di medicina. Una volta laureato, per qualche tempo, d’estate, frequentò con la famiglia la campagna nei dintorni di Mosca, dove prestò servizio all’ospedale. Nell’aprile del 1890 intraprese un lungo viaggio fino all’isola di Sachalin, dove studiò le condizioni di vita dei deportati che vi si trovavano, e di dove tornò a Mosca attraverso il Pacifico e l’Oceano Indiano; le sue impressioni di viaggio saranno raccolte nel 1895 in un volume – Lisola di Sachalin – che porterà all’attenzione della pubblica opinione il problema delle condizioni di vita nelle colonie penali.

Mettete da parte la civiltà disciplinata: affacciatevi alla vostra finestra per trovare nient’altro che vuota steppa, avvertite verso ogni essere umano la sensazione che sia un viaggiatore che vedrete una volta e mai più, e poi la vita “di per sé” sarà così terribile e meravigliosa che non servirà colorirla in modo fantasioso5.

Tra il 1891 e il 1901 compì diversi viaggi in Austria, in Italia, in Francia. Nel 1892 acquistò la tenuta di Melichovo, presso Mosca, dove rimarrà fino a che nel 1898 il pieno manifestarsi della tubercolosi non lo obbligherà a trasferirsi a Yalta, in Crimea. In quello stesso 1892 si adoperò attivamente contro la carestia e l’epidemia di colera che avevano colpito le regioni circostanti. Nel 1901 sposò l’attrice Olga Knipper, conosciuta tre anni prima durante le prove del Gabbiano.

Sulla modernità di Cechov, sul fatto che in un certo senso egli rappresenti, insieme ad altri grandi come Pirandello e Ibsen, la nascita del teatro moderno si è detto e scritto molto6. Quello che non si dirà mai abbastanza è sulla persistente attualità di Cechov, soprattutto nel suo comunicare le istanze dell’umanità contemporanea, le sue insoddisfazioni inespresse, le sue inadeguatezze, il gap insuperabile tra i suoi sogni e la realtà7 e il suo difficile rapporto con l’ambiente circostante fatto di incomprensioni, incomunicabilità e noia esistenziale, tanto che al lettore e allo spettatore del nuovo millennio non riuscirebbe difficile visualizzare Irina delle Tre Sorelle con in mano uno smartphone mentre cerca di sfuggire alla monotonia del suo lavoro insoddisfacente, oppure immaginare Anja che, dopo il finale del Giardino dei ciliegi, in un tempo fittizio posteriore al calo del sipario, scelga di manifestare con i ragazzi e ragazze della sua generazione contro la deforestazione, contro i cambiamenti mostruosi che imponiamo all’ambiente.

E la modernità sta anche nella scrittura di Cechov, che ci lascia intravedere tra le righe dei suoi dialoghi i reali pensieri dei personaggi (da cui anche la difficoltà e la maestria richiesta ai loro interpreti), che asciuga la scena fino a rendere ogni oggetto presente essenziale alla rappresentazione dello stato mentale dei personaggi o a sottolinearne la sua evoluzione8, aspetto così autentico dell’autore tanto che non si può più parlarne senza che qualcuno prima o poi tiri fuori l’argomento della cosiddetta “pistola di Cechov” anche se, a rigore, sarebbe più opportuno parlare di fucile, ovvero di quel principio narrativo per il quale ogni elemento della narrazione deve essere funzionale alla storia. Non si dovrebbe mettere un fucile carico sulla scena se non sparerà. È sbagliato fare promesse che non si desidera mantenere 9.

Ma l’attualità di Cechov risulta ancora più sorprendente se ascoltiamo il discorso di quel meraviglioso personaggio che il dott. Astrov in Zio Vanja, soprattutto se teniamo bene in mente che è stato scritto nel 189610:

Adesso guardi qua. È la carta del nostro circondario com’era cinquant’anni fa. Il verde scuro e il verde chiaro indicano le foreste. Le foreste occupavano metà dell'area. Dove sul verde vede tratteggiato il rosso, lì vivevano alci, caprioli selvatici. Qui indico sia la flora sia la fauna. Su questo lago c'erano cigni, oche, anatre, e come dicevano gli antichi, una «potenza» d'uccelli d'ogni tipo: erano nuvole volanti. Oltre i paesi e le borgate, vede? Qua e là cascine, casolari, cappelle di eremiti, mulini a acqua... Bestiame e cavalli ce n'erano in quantità. Si vede dal colore blu. Per esempio, guardi com'è denso il blu, in questa zona; lì c'erano mandrie intere... E in ogni stalla si trovavano tre cavalli in media... (Pausa) Adesso guardiamo più sotto: questo è com'era venticinque anni fa… Qui la foresta è ridotta già a solo un terzo del territorio. Il capriolo non c’è più: è rimasto l'alce... II verde e il blu sono più pallidi. Eccetera eccetera... Passiamo alla terza parte. La situazione del circondario al giorno d'oggi. C'è ancora un po’ di verde qua e là, ma non è continuo, è a macchie... gli alci, i cigni, i fagiani, tutti scomparsi... Di tutte le cascine, che c'erano, dei casolari, delle cappelle, dei mulini, non c'è più nessuna traccia. In generale è il quadro di una graduale e inequivocabile decadenza, che fra dieci o quindici anni diventerà totale. Lei mi dirà che in questo c'entra per qualcosa il progresso, e che è naturale che la vecchia vita debba cedere il passo alla nuova. Si, e capirei, se sul luogo di queste foreste sterminate ci fossero strade, ferrovie, se ci fossero industrie, fabbriche, scuole – la gente sarebbe più sana, più ricca, intelligente... ma qui non c’è niente di tutto questo! Nel circondario ci sono le stesse paludi, e zanzare, la stessa mancanza di strade, la miseria, il tifo, la difterite, gli incendi... Qui ci troviamo davanti a una decadenza avvenuta in seguito a una lotta tremenda, estenuante per l’esistenza; è una decadenza causata dall’inerzia, dall’ignoranza, da un’irresponsabilità totale.11

Astrov qui è l’alter ego dell’autore, sensibile fin da giovanissimo al tema dell’ecologia.

I drammi di Cechov sono infatti tutti ambientati nella provincia rurale, lontano, troppo lontano dai centri urbani (A Mosca! A Mosca! è il leitmotiv delle Tre sorelle), quella provincia proprio laddove il contrasto tra uomo e natura, tra industrializzazione e ambiente si fa più forte, dove sono più nettamente visibili le cicatrici delle ferite inferte alla natura dall’insensibilità della società contemporanea. Cicatrici che in Cechov corrispondono e sono la possibile metafora di quello che sta accadendo dentro ai suoi personaggi: basti pensare a quei colpi di ascia fuori scena che segnano la fine del Giardino dei Ciliegi.

M. Kurdjumov ritiene che Le tre sorelle, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi siano quanto di meglio Čechov abbia scritto per il teatro. Non sono d’accordo: la sua opera migliore, l’unica, è Il gabbiano. Tuttavia, il mio giudizio sul teatro di Čechov è stato, altrove, ingiusto. E ha ragione M. Kurdjumov quando sostiene che «il protagonista principale e invisibile del teatro di Čechov e di molte altre sue opere è il tempo che passa, inesorabile»12.

Il 10 giugno 1904, Cechov e la moglie giunsero a Badenweiler, una piccola città d’acque non lontano da Basilea. Il tempo era fresco e bellissimo. Dal mattino alle sette di sera, Cechov restava nel lussureggiante giardino di villa Frederike […].
Qualche giorno dopo, annoiato di contemplare il giardino vuoto, Cechov andò in un albergo […] Il 1° luglio sembrò star meglio: ma a mezzanotte e mezza si svegliò e chiese a Olga di chiamare un medico. Il dottor Schwörer arrivò alle due del mattino. Cechov si rialzò sul guanciale e disse con tranquillità grave:
Ich sterbe, “io muoio”. Il medico ordinò una bombola di ossigeno. Cechov protestò: “Ora tutto è inutile. Prima che portino la bombola, sarò un cadavere”. Allora il dottor Schwörer ordinò una bottiglia di champagne. Cechov prese il bicchiere, si volse ad Olga e disse sorridendo: “è molto tempo che non ho bevuto champagne”. Vuotò lentamente il bicchiere, e si distese sul fianco sinistro. Qualche istante dopo, smise di respirare.13

1 Brockett Oscar G., Storia del Teatro, Marsilio, Venezia 2016, pagg. 514-515.

2 Lunari Luigi, Introduzione a Il giardino dei ciliegi, Rizzoli, Milano 2000.

3 Lettera a M.V. Kiselëva del 14 gennaio 1887.

4 Bunin Ivan, A proposito di Cechov, Adelphi, Milano 2013, pag. 24. Traduzione di C. Zonghetti.

5 Così scriveva Virginia Woolf a proposito della narrativa di Cechov nella sua recensione di The Bishop and Other Stories, apparsa su “The Times Literary Supplement” il 14 agosto 1919, da L’anima russa, Elliot, Roma 2015, trad. di V. La Peccerella.

6 Perrelli Franco, Le origini del teatro moderno. Da Jarry a Brecht, Laterza, Roma-Bari 2016, pag. 36 e segg.

7 Brockett Oscar G., cit., pag. 516.

8 Molinari Cesare, Storia del Teatro, Laterza, Roma-Bari 1996, pag. 247.

9 Cechov Anton Pavlovic, Lettera ad Aleksandr Semenovich Lazarev del 1° novembre 1889.

10 O addirittura 10 anni prima, poiché in tutta probabilità si tratta di una rielaborazione da Lo spirito della foresta scritto nel 1886.

11 Cechov A.P., Teatro, Mondadori, Milano 1982, pag. 111. Traduzione di G. Guerrieri.

12 Bunin Ivan, A proposito di Cechov, Adelphi, Milano 2013, pag. 125. Traduzione di C. Zonghetti.

13 Citati Pietro, L’ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi, dal Corriere della Sera del 9 settembre 2013.

Cechov A.P., Teatro, Mondadori, Milano 1982. Traduzione di G. Guerrieri.

Citati Pietro, L’ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi, dal Corriere della Sera del 9 settembre 2013.

Brockett Oscar G., Storia del Teatro, Marsilio, Venezia 2016.

Bunin Ivan, A proposito di Cechov, Adelphi, Milano 2013. Traduzione di C. Zonghetti.

Lunari Luigi, Introduzione a Il giardino dei ciliegi, Rizzoli, Milano 2000.

Molinari Cesare, Storia del Teatro, Laterza, Roma-Bari 1996.

Perrelli Franco, Le origini del teatro moderno. Da Jarry a Brecht, Laterza, Roma-Bari 2016.

Woolf Virginia, Bishop and Other Stories, in “The Times Literary Supplement”, 14 agosto 1919, da L’anima russa, Elliot, Roma 2015, trad. di V. La Peccerella.

 

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