Sono trascorsi venticinque anni dalla pubblicazione de L’avversario, romanzo con cui il genio della letteratura Emmanuel Carrère fece iniziare la grande avventura della letteratura documentaria. L’inizio di un’esperienza artistica che mise al bando la metafora e i personaggi letterari, per far emergere come protagonista della vicenda lo stesso io dell’autore, insieme alla vita di alcuni uomini esemplari della storia contemporanea, ridotti però a meri specchi in cui l’autore poteva riflettere le proprie ossessioni. Da quel romanzo in poi anche il teatro decise di uscire dal ‘900, rinunciando a tutte quelle strutture retoriche, metaforiche e linguistiche che la drammaturgia aveva creato nel secolo scorso. Iniziò la grande stagione del teatro documentario, della autofiction: spettacoli in cui la storia reale e politica veniva a sostituire la finzione della storia dell’autore, e il performer, attraverso il suo corpo e il suo vero nome, si proclamava testimone della vicenda e garante della verità.
In questi venticinque anni siamo stati partecipi di una vera rivoluzione, che ha avuto come obiettivo rimettere al centro dell’esperienza teatrale il rapporto di sincerità tra performer e spettatore. Una rivoluzione democratica e partecipativa. Dopo la pandemia, però, qualcosa di quella grande rivoluzione ha smesso di funzionare. Molto probabilmente l’io dell’autore/attore aveva esaurito la sua funzione di rinnovatore della scena, o forse semplicemente si era reso conto di aver esagerato nella guerra contro la narrazione simbolica e metaforica a favore della realtà, dimenticando l’esistenza di una verità più vera della realtà, la verità di ciò che non si vede e non si sente, di ciò che resta nel silenzio direbbe Amleto: la verità della letteratura. A curare le ferite della pandemia non poteva che essere di nuovo lei, come è sempre stato, il pharmakon: la parola incarnata nel simbolo che cura e avvelena. Con sorprendente velocità e proprio per mano di quegli artisti che avevano fatto della loro vita fonte inesauribile di verità scenica, i palcoscenici sono tornati ad essere abitati dai personaggi nati dalla fantasia della penna (o sarebbe meglio dire del tasto del computer) dell’autore, rinnovati però grazie proprio all’esperienze dell’ultimo ventennio che ha avuto almeno il pregio di mandare in crisi il concetto di tradizione teatrale. Per questo ho deciso di intitolare la stagione di quest’anno Vite parallele, richiamando quel primo, enorme tentativo che fu di Plutarco nei primi anni del II secolo d.C di romanzare le biografie di uomini illustri greci e romani, per sottolineare il bisogno sia degli artisti sia degli spettatori, di fare della vita umana uno strumento che solo la letteratura può trasformare in esempio, in monito, metafora e simbolo. La creazione di un nuovo patto di fiducia con la parola letteraria. Molti sono i romanzi che verranno portati sulla scena quest’anno, da Madame Bovary di Gustave Flaubert a Orlando di Virginia Woolf, da La signora delle camelie di Alexander Dumas figlio a Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, fino a I miei stupidi intenti del giovane Bernardo Zannoni. Un modo antico e insieme nuovo di leggere l’umano e il presente. Certo che questo ritorno al romanzo sia necessario agli artisti per ricucire ferite e dare conforto e significato al dolore e alle paure di ognuno, un dubbio però mi sorge: non sarà questa anche una scelta commercialmente comoda per riempire le sale, in quanto i romanzi, anche contemporanei, sono molto più popolari delle drammaturgie? In attesa di una sincera risposta, godiamoci questa nuova stagione teatrale, che ho pensato con grande amore e cura per il pubblico di Lugano.
– Carmelo Rifici, direttore artistico Arti performative