Tra papere con gli occhiali, strumenti musicali e suggestioni divertenti e poetiche, I brutti anatroccoli cerca di emozionare raccontando che ognuno può trasformare la propria debolezza in una forza. Qualsiasi sia il punto di partenza, qualunque sia la condizione in cui ci si trovi.
Cosa ci fa sentire “a posto” o, al contrario, “in difetto” rispetto a come “dovremmo essere”?
Per una bambina, per un bambino, ogni attimo è la costruzione di un frammento della propria identità. E il mondo intorno è pieno di modelli, stereotipi, ideali di efficienza e di “bellezza” che rendono fin troppo facile sentirsi fuori posto. Basta portare gli occhiali, metterci un po’ più degli altri a leggere una frase, avere la pelle un po’ più scura o un po’ più chiara, far fatica a scavalcare un gradino con una sedia a rotelle, essere un po’ troppo sensibili… o semplicemente un po’.
Chiusi nelle proprie emozioni, si può avvertire un vuoto, come se mancasse qualcosa.
Ma è proprio da quella mancanza che si può iniziare a costruire. Il tempo che viviamo sembra metterci alla prova: ci chiede la capacità di formarci come individui accettando – e valorizzando – le differenze e le unicità di cui ciascuno è portatore.
La fiaba di Andersen, da cui il titolo prende ispirazione, è qui riletta come un archetipo, un classico che attraversa il tempo per toccare una questione universale: il senso di appartenenza, l’identità, il bisogno profondo di essere riconosciuti. Una fiaba che si trasforma per parlare al nostro presente. E, soprattutto, alle bambine e ai bambini di oggi.