Evento passato

20 febbraio 2024

Sala Teatro

20:30

21 febbraio 2024

Sala Teatro

20:30

Per la sua prima regia al LAC, Jacopo Gassmann sceglie di misurarsi con The City di Martin Crimp, autore britannico tra i più importanti e radicali del panorama drammaturgico contemporaneo. Una commedia nera, inquietante ed enigmatica, in equilibrio tra finzione e realtà, tra ricordi e memorie.

Ambientato in quello che potrebbe apparire come un normale interno borghese, lo spettacolo si apre su una vera e propria crisi di coppia di cui sono protagonisti Chris, impiegato di una grande società informatica che ha saputo che la sua divisione si appresta ad una “riorganizzazione” del personale, e sua moglie Clair, traduttrice che ha appena avuto un incontro fortuito ed ambiguo con uno scrittore di nome Mohamed, il quale, dopo averle rivelato di aver subito delle torture, le consegna un diario destinato alla figlia da cui è stato crudelmente separato. A questi si aggiunge la vicina di casa Jenny, infermiera sposata con un medico impegnato in una guerra segreta all’estero, la quale si lamenta del fatto che i bambini urlanti di Chris e Clair disturbano il suo sonno diurno. 
La tensione tra marito e moglie è evidente, nessuno sembra capace di ascoltare. Impercettibilmente, quadro dopo quadro, il loro rapporto – come il testo stesso – comincia a mostrare le prime crepe: i confini tra realismo e finzione vengono meno, i personaggi sembrano quasi scomparire nei loro dialoghi. 

“Influenzato da Beckett, Pinter e Mamet, il teatro di Crimp – dichiara Gassmann – è caratterizzato da un’inquietudine e una crudeltà di fondo, spesso stemperate da una vena grottesca e surreale.
The City è uno dei suoi testi più rappresentativi: una commedia nera, inquieta, kafkiana, incentrata sul potere del linguaggio. [...] Quella che era nata come una semplice tensione domestica si trasforma inesorabilmente in un delirio a due, attraverso cui si insinuano le minacce del mondo esterno: un mondo dove si può essere licenziati di punto in bianco e in cui le guerre, apparentemente lontane, possono irrompere improvvisamente tra noi, dentro di noi, come degli incubi in pieno giorno.” 

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Foto di scena


Jacopo Gassmann, scorrendo il suo curriculum non possiamo non notare la sua predilezione e il suo grande interesse per la drammaturgia britannica: da dove nasce?

Il mio interesse per la drammaturgia britannica, in particolare quella contemporanea, nasce agli albori ed è in parte legato al mio percorso personale, biografico: ho frequentato scuole inglesi e americane, studiando prima a New York e poi a Londra. I paesi anglosassoni hanno una tradizione diversa rispetto alla nostra: se si va a teatro a Londra, il nome principale sulla locandina è quello dell’autore, mentre la storia del teatro italiano, se pur costellata di celeberrimi drammaturghi, è stata scritta più dai grandi registi, che hanno preso testi classici e li hanno decomposti, frammentati e rivisitati. La tradizione britannica, in qualche modo, mette l’autore al primo posto, e questo crea tutta una serie di conseguenze: i teatri inglesi, ma anche quelli americani, hanno – cosa che io amo moltissimo – dei dipartimenti di drammaturgia che sono degli edifici a sé stanti, paralleli e comunicanti con le sale teatrali. In Italia – e questa è una mia battaglia personale, lo dico sempre – ci vorrebbe una maggiore attenzione alla drammaturgia contemporanea, servirebbero dipartimenti di drammaturgia contemporanea nei grandi teatri stabili. Poi c’è anche una questione di gusto e di “transfert” rispetto a certi autori che amo particolarmente, ma il discorso sarebbe interminabile. Sicuramente, Crimp è uno di quelli interessanti.


Oltre alla drammaturgia britannica, notiamo che ha già affrontato le regie di ben tre testi del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga; il lavoro di allestimento de Il ragazzo dell’ultimo banco è stato accolto con particolare interesse e le è valso un premio. Può parlarci di queste esperienze?

Juan Mayorga, che nell’arco del tempo è diventato una sorta di fratello maggiore, è stato un vero e proprio maestro per la mia ricerca teatrale. Il teatro di Mayorga è il teatro che mi interessa, fatto di testi in qualche modo aperti, che sono dei moltiplicatori di domande; io non amo gli spettacoli che mi indicano come le cose devono essere. Mayorga è un filosofo, un matematico; si rivolge a uno spettatore critico chiedendogli di completare dentro di sé ciò che ha visto. Il “gran Teatro” è quello che si ricostruisce nella memoria e che smuove qualcosa dentro di noi, permettendoci di rispondere alle domande che un testo, uno spettacolo ci ha suggerito.
Il mio primo lavoro di Mayorga è stato in Inghilterra. Poi ho debuttato in Italia [al Teatro Belli di Roma nel 2013, ndr] con La pace perpetua – un testo stranissimo, kafkiano, con quattro personaggi che sono dei cani parlanti, dei cani filosofi/ neokantiani – e poi questa esperienza molto bella al Piccolo di Milano [nel 2019, ndr] con Il ragazzo dell’ultimo banco, in cui la storia tra un professore e un alunno particolarmente dotato si trasforma in una sorta di battaglia generazionale, ma è anche un grande gioco a scatole cinesi di citazioni dalla grande letteratura.
Insomma, posso dire che sono state delle esperienze straordinarie e formative.


Per la sua prima produzione LAC ha scelto di lavorare su un testo di Martin Crimp. Ci parla dei motivi che l’hanno portata a scegliere questo autore e, nello specifico, la commedia The City?

The City è un testo che conosco da tempo, che ho letto quando venne scritto – debuttò nel 2008 – e che mi colpì immediatamente.
Io amo molto il teatro di Crimp, autore considerato l’erede di Pinter, in quanto è un teatro non naturalistico, a differenza di tanto teatro inglese. Crimp va contro una certa tradizione britannica di naturalismo. Il suo è un teatro che definirei “post-apocalittico”, che viene dopo l’esplosione e la frammentazione della parola, del linguaggio; lui rimette insieme le ceneri del linguaggio stesso, e in questo senso, appunto, è un po’ l’erede di Pinter, ma anche di Beckett. È un autore anomalo, tra quelli inglesi, ed è anche un autore molto duro, per certi versi enigmatico, che pone molte domande senza risolverle, lasciando al regista e agli attori il compito di farlo.
The City è un testo formidabile, diverso rispetto ad altre opere più sperimentali di Crimp come Attempts on Her Life, il suo testo più noto e iper sperimentale. The City l’ho trovato particolarmente intrigante perché gioca a un finto naturalismo: il testo, tutto sommato, ha un suo intreccio narrativo, ma all’interno della vicenda ci sono molteplici fratture, si trovano gli stilemi tipici di Crimp. È interessante perché è un Crimp più “soft”, più morbido, che consente di seguire una storia. Si tratta di una vicenda affascinante che, come nei grandi testi, è composta da più livelli. Da una parte abbiamo il rapporto di una coppia che sta vivendo una crisi; noi viviamo questa sorta di sgretolamento, di sfarinamento del loro rapporto mano a mano che il testo procede. Allo stesso tempo, però, seguiamo la vicenda di una traduttrice che cerca di essere anche una scrittrice; se vogliamo, tutto il testo può essere letto come una serie di tentativi da parte della protagonista, Clair, di scrivere delle bozze.
È un testo che si dipana come un enigma, un mistero. Il titolo, The City, evoca tutti quei non luoghi delle metropoli contemporanee: fin dall’inizio vengono citati due grandi non luoghi della contemporaneità, una stazione e un’azienda che sta riorganizzando il personale, luoghi che sembrano essere stati costruiti per alienarci dai noi stessi. La “Città”, inoltre, è una grande metafora di una città interiore della protagonista, ma non voglio raccontare troppo.
C’è anche il tema attualissimo, che vive Chris, l’altro protagonista, della disoccupazione o del rischio di perdere il lavoro in questo mondo di impieghi flessibili (Crimp, infatti, prende a modello il libro di Richard Sennett L’uomo flessibile).
Crimp è sì un autore cerebrale, ma The City è un testo anche profondamente struggente ed emotivo: tutti i personaggi, a un certo punto, sembrano collassare su se stessi, di fronte all’impossibilità di procedere in un mondo che si fa sempre più complesso e farraginoso; evaporano dentro i loro tentativi di esistere, di darsi un’identità attraverso la parola.


La versione in lingua italiana di The City è stata tradotta da Alessandra Serra, che ha lavorato per anni come traduttrice ufficiale e portavoce di un autore che ha segnato la storia del teatro europeo come Harold Pinter.
In passato lei ha spesso tradotto i testi teatrali dall’inglese all’italiano: ci parla della relazione tra il lavoro di traduzione e quello di regia?

Effettivamente, mi sono dedicato molto alla traduzione: in quasi tutte le altre esperienze che ho fatto teatralmente cerco di tradurre io i testi – ovviamente nelle lingue che mi sono accessibili – perché per un regista è fondamentale far proprie le parole che poi si vanno a lavorare in scena.
Il lavoro della traduzione teatrale è un lavoro particolare in quanto bisogna avere un certo orecchio per il palcoscenico. Tradurre è un mestiere complesso, è un po’ come riscrivere – qui si possono aprire enormi dibattiti, se siano più idonee certe traduzioni che rispettano maggiormente il testo oppure altre che lo tradiscono ma, paradossalmente, rispettandolo di più.
Certamente, quello di traduttore è un lavoro che amo molto. Ed è interessante che uno dei grandi temi di The City sia proprio questo e che la protagonista sia una traduttrice.


Le didascalie del copione ci indicano degli ambienti spogli e i protagonisti vestiti con abiti casual. Nel suo allestimento ha rispettato queste indicazioni? Come?
Per questa produzione si affida a Gregorio Zurla per scene e costumi: ce ne parla?

Crimp ama mettere in difficoltà non solo i registi, gli attori e gli scenografi che affrontano i suoi lavori, ma anche gli spettatori in quanto le stesse didascalie – molto spoglie – sono degli enigmi e spesso indicano cose contrarie a quello che poi i protagonisti dicono nelle loro battute (ad esempio, durante una conversazione, Chris e Jenny parlano di quanto sia bello il prato del giardino in cui si trovano, e Crimp scrive tra parentesi “non c’è nessun prato”).
Paradossalmente, in realtà, Crimp lascia una grande libertà di azione. The City è un testo che può portare una visione registica verso tante possibili strade, tanti possibili percorsi, giocando su questa sottilissima linea tra realtà e finzione. Quello che mi sembrava interessante era cercare di lavorare su un ambiente che non fosse completamente spoglio e vuoto – mi sembrava troppo – ma che fosse in parte concreto, in parte plausibilmente una casa o una porzione di casa. Come in un processo onirico, ci soffermiamo soltanto su degli elementi unici, come una poltrona, ma poi manca tutto il salotto. Mi sembrava un modo interessante di procedere rispetto a questo testo che è appunto molto onirico e allucinatorio.
Riprendendo il tema di questi non luoghi delle grandi città contemporanee, che sono luoghi alienanti, apparentemente fatti per facilitarci la vita ma che in realtà ci chiudono fuori (anche da noi stessi), la nostra scenografia è stata pensata come un ambiente a più livelli, gestibile in modo tale che in certi momenti sembri chiudere gli stessi protagonisti all’interno di luoghi claustrofobici o comunque che permetta di separare i personaggi tra di loro.
Per quanto riguarda i costumi, Crimp dà indicazioni abbastanza precise. Da parte nostra, abbiamo fatto una serie di riflessioni, tra cui quella di immaginare lo spettacolo in una specie di linea immaginaria e parallela al processo creativo della protagonista, iniziando quindi con pochi colori, quasi in bianco e nero, e aggiungendo lentamente piccole macchie di colore e nuovi elementi. 


Per questo debutto al LAC si affida al talento di attori giovani e versatili…

Sì, assolutamente, stiamo lavorando con un cast di attori molto bravi e disponibili: sono Lucrezia Guidone, Christian La Rosa, Olga Rossi e la giovanissima Lea Lucioli.
Si tratta di un cast anzitutto di talenti, a prescindere dall’età: insieme stiamo esplorando un testo complesso che spesso porta, in fase di prove, verso vicoli ciechi e a dover contraddire delle scelte che sembravano certe. Il fatto – questo sì – di lavorare con degli attori giovani aiuta perché, in qualche modo, si mettono a disposizione di un’esplorazione “senza rete”, sono disponibili anche a cadere con te e a ripartire. Ed è questo che bisogna fare con un testo del genere: non si può affrontare The City di Crimp avendo tutte le certezze al primo giorno; bisogna entrare dentro il labirinto e sperare, a un certo punto, di uscirne fuori… sani e salvi.


Note sulla traduzione
di Alessandra Serra 

In un’intervista, a proposito di The City, Martin Crimp afferma: “Una delle mie immagini preferite per rappresentare l’umanità è quella della città che ho utilizzato, per esempio, nell’opera teatrale The City, un luogo dove ogni scrittore e ogni artista crea il proprio mondo immaginario che man mano esplora; oppure un labirinto, in cui penetra con la propria torcia e un rocchetto di filo per non perdersi, sbirciando nei molti varchi, dove a volte trova l’oro o a volte un mostro. Ognuno usa la propria fantasia che permette a tutti di fare delle scoperte, ma allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare che ci sono anche delle regole da seguire. Gli scrittori e gli artisti stabiliscono le proprie regole e lavorano nel rispetto di quelle stesse regole”. 
In The City troviamo anche l’inquietudine tipica di Crimp, così come la minaccia, la violenza psicologica, il sopruso, l’anaffettività e molto ancora. 
Si sente l’influenza di Harold Pinter (1930-2008, premio Nobel per la letteratura nel 2005), che stimava molto Crimp come anche lo scozzese David Harrower (1966), soprattutto nei tempi, nel ritmo, nelle battute dette e non dette, nei sottintesi, nelle pause e nei silenzi “pieni”. D’altra parte, Pinter ha rivoluzionato tutte le convenzioni teatrali, e chiunque oggi voglia scrivere per il teatro deve tenerne conto sennò rischierebbe di diventare obsoleto ancora prima di andare in scena. 


Note sulle scene e sui costumi 
di Gregorio Zurla 

Uno spazio bianco come una pagina bianca da riempire. Anzi, più pagine in successione, organizzate in un’anomala prospettiva che tende all’infinito.
Uno spazio neutro, pensato affinché il più piccolo segno visivo possa emergere in maniera chiara e potente. 
Non ci sono porte né finestre, solo una sequenza di ambienti identici, dove oggetti e situazioni si moltiplicano, separati soltanto da bianche pareti in grado di dissolversi, andando in trasparenza.
Personaggi e oggetti appaiono come appunti su di un foglio. Stralci di pensiero, a volte incompiuti e soggetti a ripensamenti, a piccole impercettibili trasformazioni. Come i pentimenti di un pittore (in questo caso una scrittrice) che cerca di correggersi in corso d’opera, nel tentativo di mettere a fuoco un’idea, un pensiero.
E come la prospettiva di questo spazio tende all’infinito, anche il raggiungimento di questo ultimo pensiero sembra inafferrabile.


Note sul progetto luci 
di Gianni Staropoli

Nella parabola crescente del processo creativo con Jacopo c’è sempre molta ricchezza di dialogo e scambio artistico. Fin dalla prima lettura, dal primo caffè, approfondiamo il testo, i temi interni, le atmosfere, gli sfondi, i colori, i personaggi e tutto ciò che emerge e che ci porta sostanzialmente a immaginare la luce e lo spazio. Il dialogo tra collaboratori – a cerchi concentrici – è molto vivo e attivo. Con Gregorio e Jacopo è sempre un bel viaggio creativo, e per me progettare la luce diventa una costruzione di senso che va oltre la drammaturgia della luce. 
Quella di The City è una luce interna allo spazio, indiretta: la si vede (la si legge) se si vede lo spazio; c’è ma non c’è. I personaggi, all’interno di questo spazio scenografico, non vengono illuminati da corpi illuminanti tradizionali, puntati e posizionati precisamente per evidenziare o sottolineare qualcosa. Gli attori, in qualche modo, vivono lo spazio e la luce nello stesso tempo, come unico livello e visione, un livello visivo forse più leggero, distante, diafano. 
Gli spettatori, grazie all’autore del testo, a tutto il nostro lavoro di messa in scena e, soprattutto, alla loro immaginazione, si addentreranno oltre la parete disegnata.


Note sul disegno sonoro
di Zeno Gabaglio 

Punto e linea

No, il titolo qua sopra non si riferisce né a progetti di grafica né a codifiche morse, ma vuole richiamare e sottolineare la doppia natura – puntiforme e lineare – che caratterizza l’approccio al disegno sonoro per The City.
Jacopo Gassmann ha sin dall’inizio avuto le idee molto chiare rispetto agli spunti musicali e al sound che desiderava mettere in dialogo con gli elementi scenici, testuali e recitativi. Così un punto di partenza imprescindibile è stato quello della materia sonora di autori come Alva Noto, Ryoji Ikeda e Ryūichi Sakamoto (con il cameo di un insospettabile Johnny Cash natalizio), cui si sono uniti elementi originali di field recording a evocare rumori d’ambiente, realistici ma non troppo.
Il rimando al punto e alla linea, però, racconta delle funzioni che il suono riveste nello spettacolo. Da un lato – attraverso il punto – si lavora su un piano narrativo, con interventi brevi o brevissimi a evocare presenze concrete (oggettuali, naturali) che con il loro apparire e scomparire significano degli accadimenti precisi, dentro e fuori i personaggi.
La linea, invece, si riferisce a quelle fasce sonore di dimensione temporale ampia che non devono raccontare qualcosa che accade, ma devono suggerire un contesto. Nelle musiche di scena (ma anche nelle colonne sonore cinematografiche), le fasce sonore vengono generalmente associate a un livello emotivo, a dei sentimenti da veicolare. Il lavoro fatto con Jacopo per The City, però, si è guardato bene dal voler condizionare – o peggio ancora dal voler forzare – la portata emozionale delle musiche e quindi delle scene. La linea sonora, qui, è soprattutto una epoché: una sospensione che suggerisce come oltre al piano semantico del sensibile ce ne possano essere degli altri. Confermati o smentiti dall’evoluzione dello spettacolo stesso.


Note sui movimenti 
di Sarah Silvagni

Ho avuto la fortuna di poter essere presente fin dalle prime prove in sala, grazie alla sensibilità di Jacopo Gassmann, regista attento e instancabile, che mi ha permesso di essere testimone dell’attimo affascinante e temibile in cui la parola prende corpo. 
Il mio è un lavoro invisibile di osservazione e raccolta che si pone in un territorio di confine, alla ricerca del ritmo tra spazio, corpo e tempo. 
Ci siamo addentrati nella materia oscura di The City di Martin Crimp, i miei compagni di viaggio ed io, alla ricerca di quei segni ricorrenti che potessero permettere la definizione di una punteggiatura corporea per liberarne i significati. 
Ci troviamo in un ambiente scenico governato dal principio di distanza, ognuno è chiuso nella sua sfera, nel suo spazio interno, i pochi momenti di intimità, di sguardi condivisi tra Chris e Clair si trovano solo all’inizio, nel fluire di un’apparente routine famigliare. 
Si inizia con il logos, la parola che in principio sembra creare un ponte tra i due, ma che ben presto sancisce in maniera ancora più prepotente la negazione di qualsiasi possibilità di incontro.
I gesti quotidiani cominciano a svelare le prime crepe, via, via, quadro dopo quadro, la distanza aumenta, si procede per interruzioni, inciampi e percorsi frammentati in cui i corpi rimangono imprigionati e isolati in ambienti chiusi tra membrane impercettibili. 
I personaggi si muovono lungo traiettorie che si inseguono, procedono a singhiozzo attraverso tentativi di contatto destinati a fallire in un’incapacità di vicinanza e intimità. I corpi sembrano sospesi in un non luogo in cui la prossimità risulta paradossale e in cui i rari momenti di vitalità si spengono nella contrazione di emozioni compresse.
Man mano che attraversano gli spazi, li vediamo riprodurre come un disco rotto gli stessi schemi e lo stesso codice, le azioni risultano sempre più assurde e prive di senso, i personaggi cominciano a svuotarsi, a muoversi in maniera goffa, “rigida e incolore”, e il pericolo del fuori si insinua come uno spiffero gelido tra le cornici di una finestra mal chiusa.

di
Martin Crimp

traduzione
Alessandra Serra

regia
Jacopo Gassmann

con (in ordine alfabetico)
Lucrezia Guidone
Christian La Rosa
Olga Rossi

e con, per la prima volta in scena
Lea Lucioli

scene e costumi
Gregorio Zurla

luci
Gianni Staropoli

disegno sonoro
Zeno Gabaglio

movimenti
Sarah Silvagni

video
Simone Pizzi

regista assistente
Stefano Cordella

direttore di scena e capo macchinista
Ruben Leporoni

capo elettricista e datore luci
Fabio Bozzetta

fonico
Alberto Irrera

sarta realizzatrice e di scena
Lucia Menegazzo

scene realizzate da 
FM Scenografie

impianto led realizzato da 
Best Light srl

produzione
LAC Lugano Arte e Cultura,
Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale,
Teatro dell’Elfo,
Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale,
TPE – Teatro Piemonte Europa 


Martin Crimp

Drammaturgo e traduttore teatrale britannico di origini polacche, nasce a Dartford, nel Kent, nel 1956. È figlio di John Crimp, ingegnere ferroviario, e della moglie Jennie. Nel 1978 si laurea in Letteratura inglese al St Catharine’s College di Cambridge, dove vede la luce la sua prima opera teatrale, Clang, ispirata a Beckett e Ionesco. Prima di affermarsi come drammaturgo, si dedica alla narrativa componendo una raccolta di racconti brevi, An Anatomy, e un romanzo, Still Early Days, entrambi rimasti inediti. Nel 1980 inizia a lavorare all’Orange Tree Theatre di Richmond, dove vanno in scena i suoi primi sei drammi. Dopo una parentesi come sceneggiatore per Thames TV, nel 1990 inizia a collaborare con il Royal Court Theatre di Londra, diventando autore residente nel 1997. In questo teatro londinese, noto per il suo contributo allo sviluppo della drammaturgia moderna, vengono rappresentati nove suoi drammi – tra cui Attempts on Her Life (1997), il suo testo più noto e innovativo, tradotto in venti lingue – e The City (2008) – e la sua traduzione de Il rinoceronte di Ionesco (2007). In poco tempo si consolida come drammaturgo emergente della nuova scena teatrale britannica, arrivando ad influenzare autori come Sarah Kane. Dalla metà degli anni ‘90, la sua reputazione cresce non solo in Gran Bretagna ma anche all’estero, specialmente in Europa: oggi è considerato uno dei più interessanti drammaturghi inglesi e viene spesso definito l’Harold Pinter del XXI secolo. Ha all’attivo una ventina di commedie, quasi tutte tradotte e rappresentate a Londra e in tutta Europa. 
I suoi testi teatrali offrono una visione critica del declino morale e sociale della società postmoderna, delineano alcuni temi attuali come lo smarrimento e la perdita d’identità dell’individuo contemporaneo, indagano la relazione tra realtà e finzione. A livello stilistico, si caratterizzano per l’impiego di dialoghi asciutti, un distacco emozionale e uno sguardo cupo sulle relazioni umane. Il linguaggio adottato, molto legato alla realtà, cerca di rintracciare la poesia in un lessico aulico e retorico, ricorrendo alla tagliente arma dell’ironia che contraddistingue una certa drammaturgia inglese, come quella beckettiana e pinteriana. 


Alessandra Serra 
Traduzione 

Nata a Roma, vive e completa gli studi all’estero. Rientrata in Italia, a Milano, nel 1974, inizia a collaborare con varie case editrici, e nel 1979, assieme a Tullio Riva, fonda la Serra e Riva Editori che pubblica prevalentemente opere minori di scrittori maggiori. Nel 1983 cede la casa editrice alla Mondadori, che continuerà a pubblicare con lo stesso logo ma con una diversa politica editoriale. Dal 1985 si dedica interamente al teatro e alla traduzione di opere teatrali dall’inglese, dal francese a dall’americano. Nel 1989 diventa la traduttrice ufficiale e portavoce di Harold Pinter.
Traduce anche opere di Arnold Wesker, Ronald Harwood, Martin Crimp, David Hare, Tom Stoppard, Don DeLillo, Ariel Dorfman, Eugène Ionesco, Hanif Kureishi, Yasmina Reza, John Osborne, Graham Greene, Greenaway e altri. Molte delle sue traduzioni sono pubblicate nella collana “Collezione di teatro” di Einaudi. Ha scritto commedie brevi per la radio, un adattamento di Reparto 6 di Anton Čechov e de La filosofia della composizione di Edgar Allan Poe, ambedue rappresentati in Italia.


Jacopo Gassmann
Regia

Nato a Roma nel 1980, si laurea in Regia cinematografica alla New York University e consegue un Master in Regia teatrale alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra. Durante la permanenza negli Stati Uniti, frequenta corsi di regia teatrale e cinematografica in diverse università e realizza vari lavori, tra cui About the house (selezionato al concorso Cineasti del presente del Locarno Film Festival 2004). È autore di documentari, tra cui La voce a te dovuta, presentato in vari festival internazionali, e Il più bel gioco del mondo. Nel 2005 cura e firma la regia teatrale de Il minore ovvero preferirei di no sulla vita e l’opera di Ennio Flaiano. Negli anni successivi è responsabile delle selezioni artistiche del Festival Internazionale di Palazzo Venezia e del Sole e Luna Doc Fest. Traduce e adatta numerosi testi teatrali dall’inglese all’italiano e collabora come docente con il Centro Sperimentale di Regia di Milano. Tra il 2010 e il 2012 vive a Londra, dove dirige Nocturnal di Juan Mayorga e lavora presso il Dipartimento di drammaturgia del Soho Theatre. Nel 2013 firma la regia de La pace perpetua di Mayorga; nel 2015 inaugura la rassegna Trend Nuove Frontiere della Scena Britannica, firmando traduzione e regia di Confirmation di Chris Thorpe; nel 2016 traduce Bull di Mike Bartlett e cura traduzione e regia di There has possibly been an incident di Thorpe. Nel 2017 traduce e dirige Disgraced di Ayad Akhtar, finalista per la migliore regia al Premio Le Maschere del Teatro e come miglior nuovo testo straniero ai Premi Ubu. Il progetto Il teatro di Chris Thorpe vince il Premio Nazionale Franco Enriquez 2018 per la migliore regia e traduzione. Nella stagione 2018/19 traduce Yellow Moon di David Greig e Un intervento di Bartlett. Nel 2019 dirige Il ragazzo dell’ultimo banco di Mayorga per il Piccolo Teatro di Milano, finalista al Premio Hystrio come miglior spettacolo della stagione e vincitore del Premio Internazionale Flaiano per la regia. Nel 2020 porta in scena Niente di me di Arne Lygre alla Biennale Teatro di Venezia; nello stesso anno vince il premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro per la regia. Nel 2022 dirige Ifigenia in Tauride al Teatro Greco di Siracusa; nella stagione 2023/24 dirige Macbeth di Giuseppe Verdi. È curatore della collana di teatro contemporaneo Green room (Luca Sossella editore).


Lucrezia Guidone
Clair 

Dopo il diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, si trasferisce a New York dove continua la sua formazione presso il Lee Strasberg Theatre and Film Institute. In teatro lavora con grandi nomi della scena italiana e internazionale, debuttando con Luca Ronconi in In cerca d’autore di Luigi Pirandello nel ruolo della Figliastra che le vale il Premio Ubu. Nel 2013 è in scena al Piccolo Teatro di Milano con Panico di Rafael Spregelburd e nel 2014 con Celestina di Michel Garneau, sempre per la regia di Ronconi. Federico Tiezzi la dirige in Calderón di Pier Paolo Pasolini, La signorina Else di Arthur Schnitzler e Antigone di Sofocle, per il cui ruolo di Antigone vince il premio Le Maschere del Teatro Italiano come miglior attrice. Al Teatro Stabile di Torino interpreta Jelena in Zio Vanja di Anton Cechov diretta da Kriszta Szekely. Per il suo percorso teatrale riceve inoltre il Premio Virginia Reiter e il Premio Duse. Con il Teatro Stabile d’Abruzzo firma la sua prima regia teatrale portando in scena, anche in veste di protagonista assoluta, il romanzo L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio. È fondatrice e direttrice artistica di The Lab, sezione cinematografica della scuola di recitazione Point Zero con sede a Roma. Al cinema partecipa a produzioni italiane e internazionali di successo: vince il Premio Flaiano come miglior attrice per Noi 4 di Francesco Bruni; è protagonista de La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi. Nel 2017 vince il premio “Giovani Talenti” de La Repubblica al Festival dei due Mondi di Spoleto e il premio come miglior attrice protagonista al Festival di Melbourne per Time Zone Inn. In televisione prende parte alla serie Sky Dov’è Mario e alle serie Netflix Luna Nera, Summertime e Fedeltà. Nel 2023 è in scena con Romeo e Giulietta di Mario Martone ed entra a far parte del cast della serie Rai Mare Fuori 4. Al cinema sarà protagonista del film Eravamo bambini di Marco Martani, recentemente presentato ad Alice nella città.


Christian La Rosa
Christopher 

Piemontese, si diploma nel 2012 alla Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino. Nello stesso anno prende parte al laboratorio internazionale di teatro diretto da Luca Ronconi presso la Biennale di Venezia. In teatro lavora, tra gli altri, con Carmelo Rifici, Valter Malosti, Massimo Sgorbani, Andrea Chiodi e Liv Ferracchiati. Nel 2016 prende parte alla messa in scena di Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia, diretto da Antonio Latella, e al progetto Qualcuno che tace, da tre testi di Natalia Ginzburg con la regia di Leonardo Lidi. Nel 2017 è Pinocchio nell’omonimo spettacolo di Antonio Latella, interpretazione che gli vale il Premio Ubu come miglior attore under 35 e il Premio ANCT. Nel 2018 è nel cast di Spettri con la regia di Leonardo Lidi, vincitore del Bando Registi under 30 della Biennale di Venezia. La collaborazione con Lidi proseguirà negli anni successivi con La città morta di Gabriele D’Annunzio, La signorina Giulia di August Strindberg, Il misantropo di Molière e Il gabbiano di Anton Cechov. Torna a collaborare con Latella nella stagione 2019/20, ne La valle dell’Eden, dal romanzo di John Steinbeck. Tra gli impegni più recenti in teatro, Macbeth, le cose nascoste e La pulce nell'orecchio di Carmelo Rifici, Animali domestici di Antonio Mingarelli e Dramma industriale di Giovanni Ortoleva. Alterna all’attività di attore anche quella di doppiatore. Recita nel film Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani e nelle fiction televisive Rai C’era una volta Studio Uno e Non uccidere 2


Olga Rossi
Jenny

Nasce e vive in Toscana. Frequenta la Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, dove si diploma nel 2000 sotto la direzione di Mauro Avogadro. Successivamente, entra a far parte della Compagnia dei giovani del Teatro di Torino, impegnata nei tre allestimenti shakespeariani Molto rumore per nulla, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate. In teatro lavora, tra gli altri, con Massimo Castri, Giancarlo Cobelli e con Carmelo Rifici ne La signorina Julie di August Strindberg e ne L’officina di Angela Dematté. Nel 2004 fa parte del primo Corso di alta formazione per attori del Centro Teatrale Santacristina diretto da Luca Ronconi, che, in seguito, la dirige al Festival Dei Due Mondi di Spoleto nello spettacolo Lezioni. Collabora, sempre in teatro, con Alessandro Gassman, Francesco Bolo Rossini, Alessandro Genovesi. Al cinema lavora con Gabriele Salvatores, Rocco Papaleo, Giuseppe Loconsole, e partecipa a diverse serie tv, tra le quali Vita da Carlo con Carlo Verdone, I delitti del Barlume, È arrivata la felicità e la serie Netflix La legge di Lidia Pöet, diretta da Matteo Rovere.


Lea Lucioli
Ragazzina 

Nasce in un piccolo paese della Val D’Orcia, dove tuttora vive. Il teatro, i camerini, le strade, le città sono i luoghi dell’infanzia, fanno parte della vita della madre e, inevitabilmente, della sua.
Partecipa alle iniziative teatrali del proprio paese, seguendo i corsi di M. Massari dove il Teatro è prima di tutto un gioco fatto di storie, piccoli riti, magie ancestrali senza tempo che, un po’ alla volta, sanno ancora illuminare ed accendere passioni.
Per una serie più o meno fortuita di incontri e intersezioni che, inevitabilmente, animano la vita di ognuno di noi, dopo un provino a Roma viene scelta da Jacopo Gassmann. The City è il suo primo debutto teatrale.


Gregorio Zurla 
Scene e costumi 

Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera, nei primi anni lavora come assistente scenografo nei principali teatri lirici italiani, tra cui Opera di Roma, La Fenice di Venezia, Comunale di Bologna, Maggio Fiorentino, Sferisterio di Macerata. Successivamente, intraprende la carriera di scenografo-costumista collaborando con numerosi importanti registi per i quali firma allestimenti e costumi sia nel teatro di prosa che nel teatro lirico; tra questi, Jacopo Gassmann (Ifigenia in Tauride), Federico Tiezzi (Calderón, Antigone, Faust, Purgatorio, Antichi maestri, La signorina Else, L’apparenza inganna, Il soccombente), Valter Malosti (Il giardino dei ciliegi, Il misantropo), Cecilia Ligorio (L’italiana in Algeri, La Cenerentola di Gioachino Rossini), Virgilio Sieni (Metamorphosis), Marco Lorenzi (Otello, Come gli uccelli, Kamikaze), Stefano Simone Pintor (Il flauto magico, Ettore Majorana, Falcone, Alfredo il Grande), Filippo Dini (Agosto a Osage County), Silvio Peroni (Molto rumore per nulla), Claudio Autelli (Demoni di Fabrizio Sinisi, tratto da Dostoevskij). 
È candidato come miglior scenografo ai Premi Ubu per Calderón e al Premio Le Maschere del Teatro Italiano per Antigone. Nel 2011, con il regista Pintor, vince il secondo premio all’European Opera-directing Prize, mentre nel 2017, sempre con Pintor, vince il Concorso Europeo Opera Oggi.
Nel settore della moda, collabora con Zegna progettando l’allestimento delle sfilate Couture 2015/16 e 2016/17. Tra i progetti futuri, Macbeth di Jacopo Gassmann, Fedra di Federico Tiezzi, Don Giovanni di Cecilia Ligorio, l’opera lirica contemporanea Dorian Gray di Stefano Simone Pintor, Romeo e Giulietta di Filippo Dini.


Gianni Staropoli 
Luci 

Inizia la sua attività professionale nel 1997 collaborando con il poeta, autore, regista e attore Marcello Sambati, fondatore della compagnia Dark Camera, gruppo protagonista dell’avanguardia romana degli anni ’70. Nel 2006 intraprende un percorso di studio, pensiero e ricerca della luce e dello spazio scenico come elementi coessenziali e costitutivi del nuovo linguaggio teatrale contemporaneo. Attualmente collabora stabilmente con diversi registi e coreografi per produzioni italiane e internazionali, e conduce masterclass e laboratori per l’Università e per professionisti dello spettacolo sull’uso della luce nello spazio del teatro contemporaneo e sulla drammaturgia della luce. Nel 2020 partecipa al convegno internazionale di studi Lumière Matière alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Nel 2021 pubblica due articoli: per La Falena, rivista di critica e cultura teatrale edita dal Teatro Metastasio di Prato, e per Lumière Matière (Università di Lille e Università degli Studi di Padova). Nel 2022 è protagonista del film-documentario La parte maledetta. Viaggio ai confini del Teatro, un progetto di Teatro Akropolis. È tutor presso il progetto di formazione Anghiari Dance Hub diretto da Gerarda Ventura. È tutor presso Téchne, progetto di residenza, formazione e ricerca tecnica della luce presso Lavanderia a Vapore di Collegno (Torino). È docente a progetto presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma. Nel 2017 e nel 2019 riceve il Premio Ubu come miglior disegno luci per gli spettacoli Il cielo non è un fondale e Quasi niente di Deflorian/Tagliarini. Nel 2022 è finalista al Premio Ivo Chiesa – I Mestieri del Teatro.


Zeno Gabaglio 
Disegno sonoro

Conseguiti diploma in violoncello, Master in improvvisazione libera e laurea in filosofia (a Lugano, Basilea e Firenze), si dedica alla musica in varie forme, prediligendo gli approcci più autentici e – forse – meno scontati. Ha sin qui pubblicato cinque dischi (Uno, Pulver&Asche 2007; Gadamer, Altrisuoni 2009; Niton, Pulver&Asche 2013; Tiresias, Pulver&Asche 2015; Cemento, Shameless Records 2021), realizzato più di quaranta colonne sonore (per cinema o teatro) e partecipato a concerti in Europa, America e Asia. Con il trio Niton è stato recentemente inserito nella raccolta Interactions: A Guide to Swiss Underground Experimental Music e, nel corso dell’ultimo anno, ha realizzato le colonne sonore per i film Lassù di Bartolomeo Pampaloni (premio della giuria al Trento Film Festival), Supertempo di Daniel Kemény, Arzo 1943 di Ruben Rossello, Ultime luci rosse di Villi Hermann e Hugo in Argentina di Stefano Knuchel. In ambito teatrale ha collaborato con Carmelo Rifici per La pulce nell’orecchio, Ulisse Artico, Lingua Madre. Capsule per il futuro, Macbeth, le cose nascoste, Uomini e no, Ifigenia, liberata, Purgatorio e Gabbiano; con Andrea Chiodi per Sogno di una notte di mezza estate e La bisbetica domata; con Trickster-p per Eutopia, Book is a Book is a Book e Nettles; con Antonio Ballerio per Non ogni notte la luna. È inoltre presidente della Sottocommissione musica del Canton Ticino e vicepresidente della Fondation SUISA.


Sarah Silvagni
Movimenti 

Esperta in Pedagogia coreutica con esperienza pluridecennale, ha lavorato come danzatrice e performer in Italia e all’estero. Negli ultimi anni si è dedicata in particolar modo alla facilitazione dei processi creativi affiancando registi e autori nella cura delle partiture di movimento durante le fasi di costruzione e di ricerca artistica, sia nell’ambito dello spettacolo dal vivo che dell’audiovisivo. La necessità di sviluppare un pensiero critico nei confronti di metodologie e trasmissione dei linguaggi del corpo l’ha condotta ad approfondire lo studio dei processi di apprendimento somatico, diplomandosi come insegnante del Metodo Feldenkrais nel 2011 e conseguendo il primo livello in Laban Bartenieff Movement System analysis nel 2021. Da oltre dieci anni è docente di Movimento e coordinatrice del corso di Recitazione presso la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté di Roma, collabora con realtà educative istituzionali come l’Università degli Studi Roma Tre (Master Pedagogia dell’espressione), l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e l’Università di Torino. Cura eventi di danza partecipativa nello spazio pubblico e laboratori di DanceAbility che prevedono il coinvolgimento di professionisti e non-professionisti con diverse abilità, impegnandosi a rendere la fruizione e produzione coreutica quanto più accessibile ed inclusiva. Nei molti anni a stretto contatto con giovani interpreti, ha sviluppato sempre di più una consapevolezza sul tema del consenso e del limite che l’ha portata a concludere la formazione di Safe Sets in Intimacy Coordination presso Anica Academy; attualmente è in fase di tirocinio per completare la certificazione SAG AFTRA.


Simone Pizzi 
Video 

Intraprende gli studi sul Cinema presso l’Università Cattolica di Milano dove si laurea in Linguaggi dei media, completando il Master in Cinema digitale e Produzione televisiva. Nel 2013 si diploma in Regia cinematografica alla Civica Scuola di Cinema “Luchino Visconti” di Milano; il suo primo cortometraggio in pellicola dal titolo Sweet memory will die partecipa a festival italiani e internazionali.
Nel 2016 fonda la casa di produzione cinematografica Habanero Film con la quale realizza i suoi successivi documentari: La strada per Canaan e Come te stesso affrontano il tema dell’incontro fra stranieri e italiani nell'ambito delle confessioni religiose. I suoi successivi lavori trattano la tematica della pandemia: Homeland dal punto di vista sanitario, L’onda lunga da quello sociale ed economico.
Il suo ultimo documentario, Storie di ribelli per amore, racconta la Resistenza italiana a partire dalla storia affascinante di don Giovanni Barbareschi (1922-2018). Al lavoro di documentarista alterna la regia di videoclip, spot commerciali e video corporate.


Stefano Cordella 
Regista assistente 

Regista, autore, psicologo e formatore teatrale. Dopo la laurea in Psicologia, nel 2009 si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano. È tra i cofondatori di Oyes, compagnia teatrale di cui è stato direttore artistico fino al 2022, curando ideazione e regia di diversi spettacoli e vincendo il Premio Hystrio Iceberg 2018. Negli ultimi anni ha spesso collaborato con il Teatro Stabile del Veneto per cui ha realizzato gli spettacoli R+G, Amleto – Tutto ciò che vive, Quando tutto questo finirà. Dal 2019 è tra i docenti dell’Accademia Carlo Goldoni. Vince il Festival di regia teatrale Fantasio da cui nasce Lo soffia il cielo (dai testi di Massimo Sgorbani), produzione Trentospettacoli per cui dirige anche H – Il campione del mondo (7 round con Ernest Hemingway), e partecipa ai progetti Teatro Giornale di Roberto Cavosi e Spoon River di Angela Dematté. 
Dal 2018 è co-direttore artistico di Hors, festival per giovani compagnie emergenti presso il Teatro Litta di Milano, per il quale dirige anche gli spettacoli Decameron – Una storia vera, La rivolta dei brutti e sta lavorando a Le notti bianche di Dostoevskij. 
È stato assistente alla regia di Carmelo Rifici (Il compromesso), Ferdinando Bruni e Francesco Frongia (L’ignorante e il folle, La tempesta), Bruno Fornasari (Sospetti). Si forma, tra gli altri, con il maestro Declan Donnellan presso la Biennale Teatro di Venezia. Dal 2013 è co-direttore artistico del Teatro di Nova Milanese.