Carmelo Rifici dirige Giovanni Crippa e la giovane Sara Mafodda in uno spettacolo che racconta in chiave contemporanea le gesta di Ulisse, il cui mito rivive in un futuro apocalittico fatto di ghiacci che si sciolgono, di culture che si perdono e di parole che si ritrovano.

Ulisse Artico sposta la geografia della dell’Odissea classica dal Mediterraneo al mare Artico. L’eroe contemporaneo riparte dalle terre polari, da una nuova Troia, da una nuova terra di macerie, sperimentando ancora una volta il naufragio, nel cui tormento, questa volta, non c’è una Itaca che l’aspetta. Lo scioglimento dei ghiacciai disegna un nuovo paesaggio continuamente in sottrazione, di derive inarrestabili, alla cui radice sta una moderna guerra invisibile. È la guerra strisciante che l’inquinamento e il surriscaldamento termico impongono al nostro mondo.
Il passaggio delle macerie dallo stato solido a quello liquido rende la tragedia ancora più insopportabile di quella antica. Niente sopravvive, si perde il senso della continuità. Avanza il deserto della Storia. L’evocazione di figure mitiche, come Nausicaa e Calipso, non regge più perché anch’esse intossicate dalle emissioni di anidride carbonica. Al loro posto un nuovo sistema di sfruttamento delle risorse, un nuovo sistema di navigazione che inaugura una nuova scacchiera di ricchezze e di poteri, di turismo globale. Nuovi schiavi all’orizzonte dell’eroe polare.
Rifugiato su un pezzo di ghiaccio, Ulisse naufraga nell’immenso arcipelago di isole bianche in costante assottigliamento. Vede sfilare l’orso-naufrago, la volpe artica-naufraga. Ultimo rudere ad esibire la deriva è la casa-naufraga. Qui dentro scopre il cadavere di una donna inuit, una cacciatrice che ha preferito il suicidio allo spettacolo estenuante e scandaloso della fine. In questa decomposizione della realtà avrà mai Ulisse la possibilità di produrre un ultimo gesto mitico?

di
Lina Prosa

regia
Carmelo Rifici

con
Giovanni Crippa

e con
Sara Mafodda

scene, costumi e luci
Simone Mannino

musiche
Zeno Gabaglio

assistente alla regia
Ugo Fiore

assistente alle scene
Giuliana Di Gregorio

realizzazione scene
Atelier Nostra Signora

costruttori
Giuseppe Grippi
Pablo Crichton

direttore di scena
Sergio Beghi

coordinatore dei servizi tecnici 
Giuseppe Baiamonte

elettricista 
Marco Santoro

macchinista 
Giuseppe Macaluso

fonico 
Pippo Alterno

produzione
Teatro Biondo Palermo
LAC Lugano Arte e Cultura

Il cambiamento climatico, con i suoi risvolti catastrofici, coinvolge tutti, viventi umani, animali, vegetali. È un evento la cui causa rimanda, come si sa, a fattori fisici, economici, politici, umani. Ma è anche un evento drammaturgico che ribalta il nostro tradizionale posizionamento poetico dinanzi al destino dell’uomo di oggi, considerato che le condizioni in cui questo si consuma non sono più quelle a cui siamo abituati. Siamo costretti ad elaborare un nuovo punto di vista, uno spostamento dello sguardo verso un luogo geografico distante e impraticabile, nuovo ventre dell’incognito, dove anche il compimento dell’odissea umana cambia registro. Un cambiamento di rotta anche da parte del paesaggio e del nostro alfabeto. Non siamo più nel Mediterraneo, il mare che ci ha trasmesso i miti fondanti della nostra civiltà, compresa l’istituzione stessa del Teatro.
Il mito di Ulisse tra le acque del Mare Nostrum ci ha restituito una metafora del viaggio che coincide con il senso della vita stessa esaltata dall’avventura, dalla lotta contro le avversità e le tempeste, alla cui fine, però, ci aspettava Itaca. La città greca in cui Ulisse ritorna alla fine della guerra di Troia dà senso e ragione vitale al naufragio, agli interrogativi essenziali, al desiderio del ritorno. Ora siamo altrove, nel mare Artico. Dove? Che cos’è? Sono lì, ora, le colonne d’Ercole? Ciò che si liquefà non torna indietro alla sua primaria consistenza. Scompare. Ogni viaggio Artico, ogni Odissea Artica è senza Itaca. È questa la nuova materia drammaturgica che ci parla dell’uomo contemporaneo, del suo spaesamento e disorientamento, ed è di questo che ho voluto parlare nel mio testo.
A questo associo la necessità di risvegliare l’attenzione su una realtà che ci fagocita privandoci della lucidità critica: il gioco dei poteri forti si svolge oggi all’estremo Nord dove lo scioglimento dei ghiacciai ha aperto già nuove vie di navigazione al traffico delle merci a favore dei Paesi che si affacciano su quel fronte di mare. Non per niente, lì la Russia ha realizzato la prima nave-piattaforma nucleare. L’ostinata persecuzione dell’emigrazione clandestina via Mediterraneo è solo un elemento di poco conto sul piano degli interessi mondiali, dato in pasto a chi guarda non lontano dalla spiaggia più vicina a casa.
L’Ulisse Classico contava su un archivio di valori, di luoghi e conoscenze, soprattutto su una lingua con cui raccontare l’avventura. L’Ulisse Artico procede per sottrazione, per perdita, per derive… se ne va dentro un troncone di ghiaccio a forma di barca che si consuma goccia dietro goccia.
Non c’è più l’eroe. C’è l’uomo. Tutto è orizzontale nella estenuante deriva. Tutto ciò che per sempre è disancorato va via in forma di tragica uguaglianza… Ma il testo vuole essere il golfo di tale deriva. Libera la memoria mitica che sta in qualunque uomo. Il destino che si consuma altrove, non più a casa, restituisce un destino straniero. Accade così che Ulisse Artico, trovandosi a contatto con il cadavere di una donna Inuit, forse anche lei una Pentesilea, rifà un gesto eroico, classico, dà vita ad uno scambio di culture: seppellisce la donna nella sua barca ora diventata sarcofago e la lascia andare via; lui resta, si rifà una lingua, straniera, la Inuit. Può scrivere l’Odissea.

Il primo incontro con Lina Prosa avvenne qualche anno fa al Piccolo Teatro di Milano. Lina propose, all’allora direttore Sergio Escobar, di collaborare, insieme alla Scuola del Piccolo che tuttora dirigo, ad un progetto artistico-pedagogico per Lampedusa: isola e territorio molto importanti per Lina, centrali nel suo impegno civile, letterario e politico. A causa di una serie di complicazioni, quel progetto, così necessario, non si realizzò. Lo scorso anno, Giovanni Crippa mi propose di affiancarlo nel lavoro di Ulisse Artico; accettai la sua proposta in quanto mi sembrò la giusta occasione di chiudere un cerchio rimasto ingiustamente aperto. Il testo, epico e poetico, esprime efficacemente il pensiero di Lina Prosa sul teatro: l’uso di una lingua poetica, costruita sull’invenzione letteraria, spesso commovente, non priva di un’ironia sagace, riesce a sostenere temi politicamente forti quali l’ecologia, lo sfruttamento ambientale, l’annosa e tragica condizione degli emigrati, senza mai cadere nella cronaca. Al contrario, la forza immaginifica del testo, l’invenzione di un “Ulisse non Ulisse” – un altro Ulisse, smitizzato e perso nel mare Artico –, l’iper-lingua di Lina Prosa permettono ai temi di emergere senza retorica, esprimendo la disperata urgenza di un teatro che tenta ancora di veicolare dei messaggi senza temere di percorrere strade pericolose e articolate.
Giovanni Crippa è un Ulisse perfetto, tragicomico, che incarna la malinconia di un Ulisse che fu, l’ironia di un Ulisse che non può più essere. Nel suo viaggio è accompagnato da una giovane donna, qui interpretata da Sara Mafodda: non una novella Penelope, né una Nausicaa, né una Calipso, tanto meno una Circe, ma una donna, forse di etnia Inuit, morta suicida, che Ulisse chiama Pentesilea, a cui la drammaturgia affida il compito di iniziare una nuova narrazione nel mondo. Una nuova epica, un’odissea artica e femminile. Riuscita intuizione dell’autrice è quella di immaginare che un nuovo dramma epico moderno possa sorgere dal corpo inerme di una donna straniera, suicida per non essere uccisa. L’impostazione registica intende amplificare questa surrealtà grazie a un dispositivo scenico, sapientemente creato dall’artista visivo Simone Mannino, e ad un ambiente sonoro, ideato dal compositore Zeno Gabaglio, che immerge il pubblico in un’idea di teatro-suono, teatro-canzone. Al ritmo ossessivo di Le temps des fleurs di Dalida, altra ironica scelta di Lina, lo spettacolo “gira” – letteralmente – “in loop” intorno alla maschera di un perduto Ulisse. L’idea è quella di mostrare l’inquietante realtà di un continente in liquefazione attraverso lo sguardo sbigottito e annichilito di Ulisse. Insieme a lui abitano lo spazio scenico una zattera sgangherata che ruota all’infinito, una donna, qui ironicamente immaginata come una folle Dalida/Pentesilea, e la statua di una testa di cavallo ghiacciata – resto artico di un classico cavallo di Troia – che, nel corso dello spettacolo, si scioglie inesorabilmente.

07 / 08.02.2023
LAC Lugano

Foto di scena